Genio e Sregolatezza
Capitolo 1 – La locomotiva
umana
Helsinki, Domenica 27 Luglio 1952,
ore 15:00. La
tiepida estate finlandese è al suo Zenit, la carriera di uno dei più grandi
atleti di sempre sta per toccare il suo
apice, mai più raggiunto, mai più neppure tentato, da nessuno.
49 vittorie consecutive e 8 primati
del mondo negli
ultimi 4 anni. E’ così che Emil Zatopek
si appresta a disegnare la “settimana perfetta” con una sequenza di vittorie
che mai nessuna oserà eguagliare: il 20
Luglio vince i 10.000 metri con accelerazioni che annientano via via gli
avversari (il secondo gli rende 16 secondi), quattro giorni più tardi - mentre la moglie vince la medaglia d’oro
nel giavellotto…- regala il bis nei
5.000, e dopo 72 ore si presenta
ai nastri di partenza della madre di tutte le gare: la sua prima maratona.
Il ritmo,
dettato dagli specialisti Jim Peters e
Stan Cox - entrambi figli d’Albione -, è incredibilmente veloce, da record
del mondo, pensato proprio per stroncare Zatopek che, però, al 15km li affianca.
Con
istrionica sapienza e con la sua classica andatura, mentre sbuffa con la testa ciondolante (da cui il soprannome di “locomotiva umana”), la leggenda vuole
che il neofita maratoneta chieda a Peters “Non
stiamo andando troppo forte?” ottenendo l’anglosassone risposta “No,
semmai siamo troppo lenti”.
Così, al 30° KM, gli Inglesi sopraffatti dai crampi
si ritirano e Zatopek si invola solitario per diventare Campione Olimpico
con record del mondo annesso.
Francesco di maratone ne ha vinte
tante, non sulla
strada, sicuramente nella vita, certamente nel rettangolo delle palestre che
delimitano l’area di gioco del ping pong. Far
giocare Francesco con il suo ritmo, con il suo tocco di palla, con la sua
velocità di pensiero è come mettersi
dietro Zatopek e tentare di correre come lui. Lo stato di incoscienza degli
avversari dopo il primo set è simile ai crampi di Peters nell’estate Finlandese
del ’52.
Non c’è storia nelle partite, la
gloria è sua, gli
avversari sono comprimari alla ricerca di un appiglio, un set vinto quasi come
una nuvola che oscura il sole per un attimo. E’ vero, lo tengono in piedi i
nervi e la classe cristallina, ma come
Zatopek decide di non riposare mai. Altrimenti, che gusto ci sarebbe….
Capitolo 2 – Il Genio
“Devi correre, devi correre!”. Voce
sprecata. Non
correva mai a comando, decideva lui
quando, come, dove.
Ma quando lo
faceva…non lo prendevano mai. Gli
schemi li provava ma…. preferiva inventare, a volte rimanere a guardare, quasi
a voler far credere che non era quel campione che tutti pensavano.
Li illudeva, poi decideva come irriderli.
Poi arrivò
il suo momento, la consacrazione
definitiva, la notte in cui gli Dei caddero nella terra degli Dei e,
insieme a loro, il profeta del calcio totale.
Atene, 18 Maggio 1994. Un contrasto vinto, un occhio alla
porta, un pallonetto beffardo, un goal indimenticabile, il suo nome scolpito
per sempre nella mente dei tifosi e non solo: Dejan Savicevic.
Alessandro gioca quando decide di
farlo, ma quando lo
fa…. i suoi colpi sono come il pallonetto del fenomeno montenegrino. Domenica
lo fa per due volte: nella prima partita deve essere provocato per infilare una
serie impressionante di colpi imprendibili e nella seconda decide di iniziare a
tirare per annullare 6 match point all’avversario che stava per fare il colpo
della vita.
E’ così. Ha bisogno di stimoli. Sappiamo tutti che arriveranno, nel
frattempo deve pazientare e
sopportare il peso e la solitudine dei numeri
1.
Capitolo 3 – La grande “Jugo”
Umirati u lepoti - morire nella
bellezza.
Stiamo
parlando di sport, d’accordo, ma il sentimento estetico c’è ed è pervasivo: lo
dicevano soprattutto gli appassionati di calcio – che al contrario di quello
che il ruvido Est Europa può suggerire – ad un gioco duro e concreto
preferivano di gran lunga lo spettacolo. Il solo istante di illuminazione, incredulità, meraviglia che il gesto
tecnico può concedere ripaga lo spirito
di ogni bisogno della mente razionale.
Pochi sanno
che il più grande calciatore di tutti i tempi insieme al compianto Diego,
ovvero Pelé, decise di giocare la
sua partita di addio contro la Jugoslavia
perché riteneva gli slavi forti almeno quanto i suoi compagni brasiliani.
In effetti,
se chiedete ad un vecchio tifoso di Belgrado o Zagabria, la gente non andava
allo stadio per veder vincere la propria squadra ma per vedere delle giocate spettacolari, per appassionarsi alla partita.
Il vincitore era quasi un dettaglio.
Ed è stato
sempre così. Si sono succedute generazioni
di campioni senza che il loro nome fosse mai scritto come ultimo
trionfatore di una competizione (unica eccezione la Stella Rossa nel 1991,
vincitrice della Coppa dei Campioni) ma scolpite
nella memoria per le loro giocate fantastiche, irripetibili.
Alla fine
c’era sempre un coriaceo difensore
italico o tedesco che, palla a terra e senza troppi fronzoli, li fermava
prima dell’ultima stazione, ricordando loro che “partecipare è importante e
bello” però, nello sport, si scrivono i nomi di chi vince.
Ricordo
perfettamente l’epifania calcistica di
quel grande gruppo: era il 30 Giugno
1990, a Firenze, l’orologio segnava le 19:30 c.ca quando Faruk Hadžibegić sbagliava il suo calcio di
rigore che consentiva ad un’abulica Argentina di volare in semifinale (ahimé
contro l’Italia…) e metteva la parola fine ad una squadra di campioni: Stojković, Prosinečki, Boksic, Savicevic,
Suker…
Claudio e Vincenzo fanno stropicciare
gli occhi. Il rovescio di Claudio e il dritto lungolinea del pelide Calabro
sono da manuale: quasi imprendibili, eseguiti con naturalezza inspiegabile, altra categoria.
Eppure, alla fine, come per la grande Jugo,
vince chi è più concreto, chi mette la
palla in campo più volte dell’altro, chi è più costante. A volte basta
poco.
I nostri si rifaranno, non ci sono dubbi: continueranno a specchiarsi nell’affascinante splendore dei
loro colpi, cercheranno il gesto tecnico perfetto, si abbandoneranno all’introspezione dell’anima, alla ricerca dell’assoluto
e urleranno ad ogni punto come fosse quello della vita ma……sotto la guida dei loro più concreti compagni, sapranno portare a
casa il risultato.
Disclaimer
Non togliamo nulla agli avversari, sono stati molto
corretti e ci hanno reso la vita difficile.
Paragonarci
a dei mostri sacri dello sport non è
superbia ma leggerezza nell’accettare le sconfitte senza lusingarci delle
vittorie ricordando a noi stessi che il tennistavolo ci regala momenti (a volte
intere giornate) di cui abbiamo bisogno ma non
è ciò per cui viviamo.
Noi siamo le
Fearless Eagles, giochiamo senza
paura e dovevamo prenderci una rivincita dopo le sfortunate prestazioni della
scorsa stagione: così è stato.
Vincenzo